Goro e Gorino, costruire ponti invece di muri

Alluvione del Polesine 1951 - fonte: notizie.itNel novembre del 1951, le drammatiche conseguenze dell'alluvione del Po colpivano il Polesine e i paesi di Goro e Gorino: tanti morti (circa cento), interi paesi e i relativi territori devastati (più di 180.000 senzatetto) e la povertà che segue sempre le disgrazie. La solidarietà verso le popolazioni colpite coinvolse tutti, anche le famiglie più povere (erano tanti i poveri in quei primi anni del dopoguerra in una Emilia-Romagna che era stata attraversata dalla "linea gotica" fino alla primavera del 1945).

In particolare, furono accolti i bambini rimasti orfani e le famiglie di sfollati nei paesi che non avevano subito l'alluvione solo perché gli argini che avevano ceduto erano dalla parte opposta, nella provincia di Rovigo.

Come è possibile che popolazioni che hanno vissuto in prima persona l'esperienza dello sfollamento e della migrazione, così come la responsabilità dell'accoglienza, possano manifestare a distanza di pochi decenni idee e comportamenti che feriscono la loro stessa storia?

Credo che abbiamo il dovere di cercare di capire. In quegli anni, nelle case, ci si interrogava, adulti e bambini, su che cosa si poteva fare per aiutare le persone colpite dall'alluvione. Anche a scuola se ne ragionava con le maestre ed i compagni e la stessa cosa avveniva nelle "case del popolo", nelle parrocchie, ciascuno suggeriva qualche idea e offriva qualcosa. I bambini portavano un quaderno, delle matite, un giocattolo. Le nonne, che avevano conosciuto anche l'emigrazione, lavoravano a maglia producendo guanti e sciarpe. Che cosa contribuiva a rendere possibile che la solidarietà potesse essere vissuta come una cosa normale, oserei dire "naturale"?

La socializzazione dei problemi e delle risorse. Problemi e risorse non sono mai solo individuali, nasciamo e viviamo immersi nel sociale e questo è un dato costitutivo di ciascuno, un dato che va insegnato. Ma è questo un apprendimento che si può realizzare solo offrendo l'opportunità di partecipare: la responsabilità infatti si può imparare esclusivamente attraverso l'esercizio della responsabilità.

Stiamo vivendo migrazioni di intere popolazioni. Come ne prepariamo l'accoglienza nei paesi che non vivono attualmente i drammi da cui le migrazioni hanno origine? Coinvolgiamo le nostre comunità o l'accoglienza è un compito limitato alle istituzioni, alle quote da assegnare ai territori ospitanti, alla spartizione delle risorse a disposizione?

Una cultura non è una caratteristica naturale neppure negli umani, una cultura è una produzione, il risultato di un lavoro. Gli uomini non sono umani per natura. Lo possono diventare se incontrano l'opportunità dell'educazione all'umanità. Questo è quello che abbiamo il dovere di fare se non vogliamo limitarci al lamento e a sentirci a posto perché ci indigniamo e condanniamo la disumanità. E lo dobbiamo fare a partire da casa nostra, a scuola, nei posti di lavoro, nelle reti amicali, nelle sedi istituzionali nel loro rapporto con i cittadini. Occorre dare a tutti l'opportunità di partecipare alla ricerca di risposte alla domanda: abbiamo un problema, che cosa possiamo fare? Una cultura non è una caratteristica naturale neppure negli umani. Una cultura è una produzione, il risultato di un lavoro.

A Goro e Gorino, in provincia di Ferrara, i cittadini hanno costruito barricate contro i migranti, 12 donne e 8 bambini. Il rischio è di smarrire ogni traccia di umanità.

Negli stessi giorni, a Fiumicino, centotrenta siriani sono arrivati in Italia grazie ai percorsi 'sicuri' ideati e finanziati da chiese e organizzazioni del volontariato con il sostegno dello Stato. Così l'Italia dell'accoglienza dà una seconda vita ai siriani in fuga dalla guerra. Una buona pratica che sta per essere adottata anche in Francia e Polonia. Grazie a iniziative nate dal basso che sono in grado di coinvolgere l’intera comunità, per centinaia di siriani in fuga dalla guerra vuol dire arrivare in Europa in modo sicuro e controllato, sfuggendo ai trafficanti, arrivando salvi e integrandosi dopo l'arrivo. Per l'Italia, a differenza della vergogna di Goro e Gorino, significa anche dare prova di civiltà in una Unione europea che con la gestione della crisi dei rifugiati sta dimostrandosi invece troppo spesso sorda, e che di civiltà avrebbe bisogno.

C'è tanto lavoro da fare se vogliamo tornare a essere una comunità in grado di promuovere una cultura di giustizia sociale, umanizzazione e inclusione.

A Bologna, possiamo lavorare per costruire ponti, ad esempio promuovendo il modello dei "corridoi umanitari" anche sul nostro territorio: un progetto per consentire a chi fugge da guerre e fame la possibilità di entrare in Italia in modo sicuro per sé e per tutti.