Suicidio nel carcere bolognese della Dozza di José Gonzales Torres
da inchiesta, www.inchiestaonline.it
L’ 8 novembre 2012 si è tolto la vita nel carcere bolognese della Dozza José Gonzales Torres, un dominicano di 31 anni, su questo episodio pubblichiamo l’intervento che Francesco Errani ha fatto nel consiglio comunale di Bologna
“Ho 30 anni, sono dominicano ma vivo in Italia da 13 anni. Sono un ragazzo molto allegro, simpatico e molto positivo . Mi piace fare amicizia e confrontarmi con altre culture, mi piace viaggiare e conoscere il mondo. Mi considero molto combattivo e testardo…”.
Questa l’autopresentazione di José Gonzales Torres sulla redazione di Ne vale la pena, il periodico che viene scritto all’interno del carcere della Dozza curato da Bandieragialla. Il suicidio di questo ragazzo è, purtroppo, l’ennesimo “evento critico” che ha sconvolto la vita della comunità penitenziaria bolognese. Era un ragazzo di 31 anni di origine dominicana in carcere da poco meno di un anno, la madre in Italia da 15 anni, condannato a 5 anni per spaccio di stupefacenti. Alla Dozza aveva frequentato la scuola media con ottimi risultati. Da un mese era stato ammesso ad una sezione più “aperta” del carcere e frequentava da due settimane il corso professionale per addetto alla produzione pasti.
Tanti che tentano il suicidio vengono salvati dagli agenti di polizia penitenziaria o dai compagni di cella, senza che la cosa faccia troppo notizia. Lui non lo ha salvato nessuno ed è finito nelle statistiche del massacro al quale siamo più o meno abituati da tempo.
Da gennaio, le persone che si sono suicidate in carcere in Italia sono 67: un detenuto ogni 8 giorni decide di ammazzarsi .
La sua morte pesa come una piuma nella coscienza collettiva. Non basta certo a convincere i benpensanti che uno Stato democratico che ti costringe in un luogo di restrizione ha il dovere preciso di garantirti condizioni di vita dignitose. Il carcere non deve punire ma deve rieducare. Non so quali pensieri abbiano abitato le giornate di questo giovane uomo, in particolare le ultime giornate. Per cercare di capire non riesco a non prendere prima di tutto in considerazione la domanda: lasciar morire non è forse un modo, anche se non voluto e sicuramente più nascosto, di dare la morte?
Il carcere è prima di tutto esperienza di esclusione, negazione di appartenenza. Ciò comporta la perdita di autostima, la vergogna di dover offrire agli altri un’immagine degradata di sé e, progressivamente, generare la convinzione che la vita non valga più la pena di essere vissuta. Se non vogliamo che il carcere sia un processo di esclusione sociale, di disumanizzazione e, di conseguenza, un indurre alla morte, scontare una pena deve poter essere un percorso che ristabilisce la giustizia e non che aggiunge un’ingiustizia . Occorre che il carcere possa essere vissuto come il dovere ma anche come il diritto di pagare per un’azione ingiusta commessa nei confronti della società di cui si è però legittimamente ancora parte e c’è la necessità che lasci intravedere una prospettiva, un futuro possibile.
L’esperienza del carcere deve proporsi come un tempo di riprogettazione di vita. Significa avere una prospettiva di realizzazione professionale, abitativa, culturale e di relazioni sociali. Ci sono alcuni progetti all’interno della Dozza che confortano questa prospettiva, come l’esperienza musicale del coro diretto dal maestro Napolitano, il laboratorio sartoriale che offre la possibilità alle donne detenute di imparare un mestiere, l’apicoltore per la produzione del miele, il laboratorio per il trattamento di materiali elettrici, l’officina meccanica.
Occorre valorizzare queste esperienze e moltiplicarle . Con quali risorse? L’Amministrazione della nostra città, attraverso il Comitato locale per l’esecuzione penale, può e deve curare l’integrazione di una pluralità di risorse, alcune già attive, altre che possono aggiungersi: i servizi, le piccole cooperative, il volontariato, l’Università e le stesse persone detenute, ma anche trovare il finanziamento per le attività ricreative, culturali e sportive, mantenere quelle per le mediatrici culturali, lavorare per il reinserimento lavorativo valorizzando le clausole sociali e i comportamenti aziendali eticamente orientati, come anche trovare soluzioni abitative.
Serve un impegno più attivo del Comune di Bologna nelle politiche per il carcere, senza dimenticare che il Sindaco di Bologna è il Sindaco di tutti, anche dei cittadini detenuti .