Morire di carcere
Sono numerosi i detenuti che tentano il suicidio e che vengono salvati dagli agenti di polizia penitenziaria o dai compagni di cella, senza che la cosa faccia troppo notizia. Venerdì nel carcere bolognese della Dozza un detenuto cinquantenne che si trovava nel reparto infermeria "si è tolto la vita, impiccandosi all'interno della sua cella" ed è finito nelle statistiche di un dramma, al quale siamo purtroppo ormai abituati.
Questa morte pesa come una piuma nella coscienza collettiva e non basta certo a convincere i benpensanti che uno stato democratico ha il dovere di garantire condizioni di vita dignitose anche in un luogo di restrizione. Il carcere non dovrebbe infatti punire, ma rieducare. Per cercare di capire, non riesco a non prendere prima di tutto in considerazione la domanda: lasciar morire non è forse un modo, anche se non voluto e sicuramente più nascosto, di dare la morte? La Costituzione della Repubblica Italiana afferma il principio che la pena ha fini di recupero e di reinserimento sociale.
La situazione del sistema carcerario italiano, di fronte al sovraffollamento e al calo di risorse, è drammatico. All'interno della Casa Circondariale di Bologna, la capienza di 489 detenuti è abbondantemente superata dalle 760 presenze. Il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno (350 quando dovrebbero essere 550) e gli educatori in servizio sono solo 6 (invece che 11).
Il carcere non è extraterritoriale, è parte della città di Bologna. Il Comune di Bologna, durante lo scorso mandato, ha riattivato lo Sportello del cittadino dentro il carcere, ripristinato la figura dell’assistente sociale che garantisce il collegamento “tra dentro e fuori”, riattivato il Comitato Locale per l'esecuzione penale. L’esperienza del carcere deve proporsi come un tempo di riprogettazione di vita. Ci sono esperienze che confortano questa prospettiva: l'esperienza musicale del maestro Napolitano; il laboratorio sartoriale e quello per il trattamento di materiali elettronici; l'officina meccanica; la serra per la produzione agricola e oggi il nuovo caseificio, il progetto “non solo mimosa”.
Serve un impegno attivo delle istituzioni per ridurre il sovraffollamento e per assumere personale, e occorre che il carcere possa essere vissuto come dovere, ma anche come diritto di pagare per un’azione ingiusta commessa nei confronti della società, di cui si è però legittimamente ancora parte, e c’è la necessità che anche questa esperienza drammatica lasci intravedere una prospettiva, un futuro possibile.